Segnò la sconfitta del despota nazista e del suo regime
di Adriano Marinensi
Il 22 giugno di 81 anni fa, prese avvio l’Operazione Barbarossa, durante la II guerra mondiale. Finirà 166 giorni dopo (5 dicembre 1941), con la sconfitta fallimentare degli aggressori. Il tiranno Adolf Hitler aggredì l’URSS con l’intento di accrescere il suo dominio già consolidato in Europa e raggiungere l’obiettivo ideologico di germanizzare gran parte dell’impero russo. E temporaneamente, utilizzare i prigionieri come forza lavoro per sostenere l’impegno bellico. Un piano militare gigantesco su un fronte immenso: la conta finale dei morti e dei feriti venne fissata su grandi numeri.
La base di partenza del sintetico racconto non può prescindere dal richiamare il Trattato di non belligeranza stipulato due anni prima (23 agosto 1939), a Mosca, dai ministri Molotov e Ribbentrop, che avrebbe dovuto scongiurare, per dieci anni, ogni conflitto tra nazisti e sovietici. Il Fuhrer lo mise nel cassetto, preparando, sin dal giorno dopo, segretamente, i piani d’attacco. In quella fase di guerra, le truppe del Reich avevano già invaso, oltre alla Polonia (settembre 1939), la Francia, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo, la Grecia. Sull’altro fronte dello scacchiere, Slovacchia, Ungheria, Bulgaria, Romania avevano aderito all’Asse Roma – Berlino.
Secondo il criminale nazista, reso tracotante dalla sua potenza militare, era il tempo giusto per ridurre il patto con l’URSS ad un pezzo di carta, come era uso dire dei trattati internazionali, il suo sodale Mussolini. Nel progetto c’era anche l’Ucraina per assicurare all’esercito le rilevanti risorse agricole. E all’industria, quelle minerarie del bacino del fiume Donec, la riserva carbonifera più grande d’Europa. Tra i propositi pure la conquista dei pozzi di petrolio del Caucaso.
Si era all’inizio dell’estate ed occorreva quindi una azione lampo che terminasse prima dell’arrivo, in Russia, del temibile generale inverno. C’erano rimasti intrappolati, Napoleone Bonaparte e la sua Grande Armata, nel 1812, quando persero 400.000 uomini tra morti e dispersi, oltre a 100.000 prigionieri. All’andata, i nazisti procedettero rapidamente, pur impegnati su un fronte enorme e un ostile teatro di guerra. Strada facendo, la presa di Stalingrado, come effetto speciale di propaganda per la presenza, nel nome della città, del capo nemico Stalin. Poi, via diretti verso Mosca, mentre i russi attorno facevano terra bruciata. L’Operazione Barbarossa non fu rapida come nelle previsioni del Baffino nefasto.
Nel dicembre 1941, si verificarono due diversivi non di poco conto: La prima controffensiva dell’Armata rossa che costrinse gli invasori alla marcia indietro, mentre, nel Pacifico, i giapponesi attaccarono la base navale americana di Pearl Harbor e gli USA entrarono in guerra. In Africa settentrionale, ci sarà (23 ottobre – 3 novembre 1942) la sconfitta dell’Asse, ad opera degli inglesi, nella terribile 2a Battaglia di El Alamein (bilancio dei morti: 13.500 inglesi, 17.000 italiani, 9000 tedeschi) che consegnerà il dominio del Mediterraneo alla flotta britannica. Insomma, le cose, per Hitler, non si stavano mettendo troppo bene. Anzi male, perché, in Russia, l’appello di Stalin al patriottismo per la difesa della patria, aveva creato una forte mobilitazione militare e popolare.
Cominciava il ripiegamento degli aggressori germanici e lungo il tragitto inverso furono coinvolti anche gli italiani dell’ARMIR (ARmata Italiana in Russia) – inviati da Mussolini e comandati dal generale Italo Gariboldi – che avevano combattuto con onore sul Don. Durante il viaggio di ritorno furono decimati dal gelo e dalla neve. Un evento funereo, descritto dall’Ufficiale degli Alpini Giulio Bedeschi nel libro Centomila gavette di ghiaccio.
I tedeschi, ormai sospinti dai sovietici, questa volta da assediati, dovettero affrontare la 2a Battaglia di Stalingrado, una delle più violente e sanguinose dell’intero conflitto. Si confrontarono con accanimento le truppe del Feldmaresciallo Friedrich Paulus e quelle del generale Vasilij Cujco. Ebbe inizio il 17 luglio 1942 e finì 2 febbraio 1943, quasi sei mesi di confronto tra giganti, che lasciarono sul terreno una carneficina. Testimoniata da questi dati: un milione di tedeschi morti e circa 500.000 sovietici, una ecatombe di carri armati, aerei e altri mezzi da combattimento.
Hitler aveva ingiunto a Paulus ed alla 6a Armata di “resistere sino all’ultimo uomo e all’ultima cartuccia”. Dopo i devastanti bombardamenti finali a cannonate, durati diversi giorni, di soldati ne erano rimasti pochi, di munizioni quasi niente. Pure i cavalli erano esauriti: li avevano mangiati. Allora il Feldmaresciallo decise la resa. La 2a Battaglia di Stalingrado era finita. Il tiranno nazista aveva voluto sfidare proditoriamente l’ “orso russo” ed era stato respinto.
Da quella sconfitta scaturì la disfatta dell’Operazione Barbarossa e, un paio di anni dopo, la cancellazione del regime che aveva messo a soqquadro mezzo mondo, provocando una guerra costata 50 milioni di vittime, molte tra i civili. Durante gli anni ’40 del ‘900, in molti tifarono per i sovietici di Stalin perché riuscissero a cacciare gli invasori di Hitler. Oggi tantissimi tifano per gli ucraini perché caccino i neo sovietici di Putin. E’ il corso della storia che muta il “gioco delle parti”, ma si ripete, a distanza di quasi un secolo. Con le stesse scelleratezze.