Durò vent’anni tra compromessi di difficile gestione: poi venne il 2 giugno 1946
di Adriano Marinensi
Nelle migliaia di volantini che il 17 luglio 1943 piovvero dal cielo su Roma, c’era scritto: “E’venuto il momento di decidere se gli italiani debbono morire per Mussolini oppure vivere per l’Italia e la civiltà”. Una sorta di ultimatum sotto forma di aforisma quasi amichevole. Nient’affatto amichevoli furono gli altri aerei (circa 300) che, due giorni dopo, scaricarono un bel po’ di bombe (quasi 4.000) sul Quartiere San Lorenzo, ponendo fine all’illusione di Roma inviolabile (sacra e “caput mundi”), guardiana del grande patrimonio d’arte, di storia, di monumentalità.
Mussolini si trovava a Feltre di Belluno, convocato da Hitler e speranzoso di ottenere ulteriore soccorso nazista per fermare gli Alleati che stavano avanzando dalla Sicilia verso il “tacco dello stivale”. Non ottenne nulla, in più la notizia del bombardamento di Roma interruppe l’incontro. Gli effetti disastrosi dell’incursione, il duce li vide dall’aereo che lo riportava a Palazzo Venezia, nella smisurata Sala del Mappamondo, piena di telefoni (uno riservato alle amichette), gagliardetti, statuine di vittorie alate, segni del potere che, di lì a qualche tramonto sarebbero diventati inutili per lui.
Sotto quella nuvola nera che adombrava lo scalo ferroviario, già aleggiavano i fantasmi della congiura tramata da autorevoli esponenti monarchici e pure fascisti. Il Re Vittorio Emanuele III, che per vent’anni, piccolo com’era, era rimasto pavidamente seduto sul grande trono di broccato rosso, prese coraggio e, aiutato dal voto antifascista del Gran Consiglio, lo cacciò dal Governo. Non era mai stato tra le simpatie del duce quell’omino di poco fisico, abbigliato da combattente, il quale, nelle cerimonie pubbliche, gli camminava sempre un passo avanti.
Il fascismo caduto, il suo Capo defenestrato, il balcone di Piazza Venezia affacciato sulla storia, chiuso e muto. Lo sbarco degli Alleati in Sicilia e le macerie di San Lorenzo avevano avuto un effetto devastante. Con il Re alla riscoperta del suo ruolo, la gerarchia in camicia nera non più il blocco monolitico del signorsì. Giunti al pettine i tragici nodi aggrovigliati dalla guerra che aveva disfatto una generazione di giovani italiani. I patti di sangue con il sodale nazista un errore strategico, i declamati milioni di baionette alla bancarotta.
Dunque il Re ha cambiato posizione Con lui, per due decenni, si era personificato il lato pigro delle monarchie settecentesche. Un’ora delle decisioni irrevocabili, totalmente diversa dall’altra del 10 giugno 1940, era suonata. Anche se a molti storici, il mutamento di rotta del Sovrano parve più il tentativo di salvare la dinastia che un gesto ardito per il riscatto della Patria. Ma, tant’è. L’andamento negativo del conflitto stava dando seri motivi di dissenso anche alla Principessa Maria Josè ed al Principe Umberto, che sembra stessero, anche loro, tessendo i fili per trovare una via d’uscita dal fascismo.
Occorreva un aggancio con gli Alleati per trattare il possibile armistizio. A fare da minaccioso ostacolo, lo sguardo ferino del Fuhrer. La deriva del Paese comunque andava fermata. Pur se il rischio dell’azzardo fosse nella consapevolezza di tutti. Più che l’aiuto del Divino, occorreva assicurarsi il sostegno del suo Vicario in terra. Irrinunciabile.
Soprattutto la sfida diretta al dittatore dava timore, per la possibilità di una reazione violenta, pur se ormai il mito dell’uomo mandato dal destino fosse in fase calante. D’altronde non i congiurati erano traditori, ma colui che stava mandando l’Italia nel baratro. Molti cercavano in sé stessi una giustificazione alla fellonia, mentre freneticamente si faceva la conta dei consensi necessari per esautorare Mussolini. Siamo al 24 luglio e ad essere in ansia è pure lui, il Capo, a Villa Torlonia, incalzato da donna Rachele che, come ogni moglie accorta, fiutava l’aria della rivoluzione nei movimenti in atto. Come Calpurnia con Giulio Cesare alle idi di marzo del 44 a. C.
C’è un altro teatro, quello dei disciolti partiti, dietro le quinte di un palcoscenico a sipario da tempo calato. Hanno ricominciato a muoversi vecchi pensatori in Italia e fuori. Ritengono, a voce unica, che il regno dell’arbitrio (fascismo più monarchia) sia all’occaso ed agitano libere bandiere repubblicane.Le adunate oceaniche sono “evaporate” perché buona parte del popolo, nella sconfitta, ha mutato sponda, “aiutato” dal rifiorire della stampa clandestina. Hanno cominciato ad attraversare il guado sia la grande finanza, sia il mondo dei grandi agrari, quelli dell’ordine e della disciplina, s’erano adoperati per sostenere l’operazione 28 ottobre.
C’è il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio in odore di nuova guida del Governo senza i fascisti. Non è più il condottiero che, pochi anni prima, aveva telegrafato al duce: “Oggi, 5 maggio, alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Addis Abeba”. Tra i nuovi sovversivi, anche Galeazzo Ciano, il marito di Edda Mussolini, il genero un po’ spocchioso. In posizione preminente, Dino Grandi, autorevole pizzo e baffi, già Ministro degli Esteri, sanguigno romagnolo come Benito. Contesta persino Emilio De Bono, l’ormai vetusto (ha 77 anni) quadrunviro della Marcia.
Ma, Mussolini pensa di essere pur sempre il duce e si fida del proprio ipnotico carisma che, in alcune occasioni, gli è servito per domare altri fuochi. Questa volta però non si tratta di un fuoco, ma di un incendio, acceso allo scopo di bruciare lui e il regime. Per i principali gerarchi, ora è il Re il punto di riferimento ed al Re vogliono far tornare il potere insieme al comando delle forze armate. Lo scettro e la spada. “Signori, attenzione – ammonisce il dittatore durante il Gran Consiglio – l’O. del g. Grandi mette in gioco l’esistenza stessa del regime”. E aveva la forma di una resa dei conti. La discussione drammatica. Venti anni di storia italiana trovano la conclusione proprio nell’approvazione (19 Si, 7 No, 1 astenuto) di quel documento che diventa, in mano al Re, lo strumento di sfiducia al fascismo. Il treno in orbace ha deragliato e non serviranno gli sforzi per rimetterlo sui binari con la nefasta Repubblica di Salò.
L’azione di recupero tentata in extremis dalla Corona sabauda non riuscirà ad evitare il SI alla Repubblica nel Referendum del 2 giugno 1946, quando votarono per la prima volta le donne (Repubblica 12.718.641 – Monarchia 10.718.542). Poi, fu l’Italia del dopoguerra, da ricostruire materialmente e moralmente, con le armi della pace, con la libertà e la democrazia.