Il cartaginese fu considerato il più ardito condottiero dell’antichità

di Adriano Marinensi

Eravamo giovincelli, quando ce lo raccontarono a scuola. Sembrava una favola, invece era accaduto davvero: un grande esercito, tantissimi anni fa, aveva scavalcato le Alpi, portandosi appresso una mandria di pachidermi. Animali abituati a vivere a temperature torride, che salgono sulle vette solenni, coperte di neve, senza seguire alcun tragitto conosciuto e segnato. L’impresa impossibile, a quei tempi. Quando esistevano gli elefanti da combattimento.

Il Mediterraneo, sin da remoto, è stato teatro delle grandi battaglie di mare e di terra per il predominio della navigazione, dei commerci, dei traffici. Ne sanno qualcosa i romani antichi che dovettero vedersela con i cartaginesi. Annibale Barca, nato a Cartagine, nell’odierna Tunisia, il 247 a.C., lo aveva giurato a suo padre Amilcare: “Odierò Roma e la combatterò vita natural durante”. Nel dominio spagnolo di Cartagena, appena ebbe età adulta, si mise ad allestire una grande armata per tener fede alla promessa di eliminare l’Urbe e il suo prepotere.

La strada più breve per arrivare in Italia, sarebbe stata via mare, dove però primeggiava la flotta avversaria. Allora, non rimaneva che il percorso attraverso la Spagna e la Gallia. Centinaia di chilometri da percorrere a piedi con al seguito un esercito gigantesco, erano da considerare un azzardo fallimentare. Concepito soltanto nelle leggende mitologiche. Non per Annibale che gli storici hanno definito il più ardito condottiero dell’antichità. A Roma, vigeva la Repubblica, seguita al lungo periodo dei Sette Re, da Romolo, il fondatore, a Tarquinio il Superbo. Cartagine l’avevano fondata i fenici, chiamati punici dai romani. Due civiltà e due galli a cantare nel “pollaio” mediterraneo erano troppi. Cominciarono così le tre guerre puniche.

La prima, durata una ventina di anni, l’aveva persa papà Amilcare Barca. La seconda la intraprese il figlio Annibale. Passando per la Spagna, arruolò molti iberici e in Francia i galli, nemici storici di Roma. La spedizione ebbe inizio nella primavera del 218 a.C. Al seguito – come già detto – pure una trentina di aggressivi elefanti, rigorosamente di sesso maschile, che, all’epoca, avevano la funzione di sfondamento tipica dei carri armati moderni.

Non erano quelli mansueti e giocherelloni del circo equestre. Li avevano addestrati allo scontro sul campo: s’usava lanciarli all’assalto per scompaginare le truppe nemiche. Dunque, ecco Annibale. Cammina, cammina, quando l’interminabile falange cartaginese giunse di fronte alla barriera alpina, s’era fatto quasi inverno. Avversari principali il gelo e le impervie ascese lungo un percorso anonimo. Dove scarse erano le possibilità di rifornimento.

E gli elefanti? Voluminosi, un po’ ingombranti, molti gravati dalle torrette per il trasporto dei viveri. Con la proboscide resa inutile nella natura bianca: Calvario e decimazione. Salire, sempre salire, le zampone di piombo sprofondate, il barrito da ultimo respiro. Due settimane durò la traversata, in mezzo alla tormenta. Una strage di soldati e di animali. Il fascino dell’uomo al comando riuscì a tenere unito un esercito allo stremo delle umane possibilità di resistenza. Un gioco d’azzardo che riuscì a portare in territorio italiano 26.000 uomini. L’ultima ipotesi sostenuta su basi scientifiche, con la datazione al radiocarbonio di un deposito di sterco equino, indica il passaggio sul Colle delle Traversette, nei pressi del Moncenisio, a quota 2950.

Disceso dalle Alpi – dalla partenza erano trascorsi 5 mesi di tribolazioni – Annibale si imbatté, sulle sponde del Ticino, in un contingente della cavalleria romana, guidato da Publio Cornelio Scipione, il Padre dell’Africano. Annibale sbaragliò il nemico pure al fiume Trebbia, nei pressi di Piacenza. La strada verso Roma parve spianata. Si rimise in marcia. Attraversando l’Umbria, trovò di nuovo i romani e li dovette affrontare nella cruenta battaglia del Lago Trasimeno (21 giugno 217 a.C.), dove il cartaginese mise in mostra tutta la sua abilità tattica.

Vicino alle rive del lago, l’acqua si colorò di rosso, il sangue di 15.000 romani caduti sul campo, insieme al Console Gaio Flaminio. Il Senato, alle notizie che arrivavano dal fronte di guerra, entrò nel pallone: Annibale è alle porte! Invece lui puntò verso sud. Aveva sempre vinto, ma il mantenimento dell’esercito cominciava a pesare. Grande il bisogno di generi alimentari. Si diresse in Puglia, dove esistevano depositi di grano e vettovaglie.

A Canne, nell’antica Apulia – il 2 agosto del 216 a.C. – di nuovo di fronte i due eserciti. I romani schierarono otto legioni al comando dei Consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone. Fu lo scontro più sanguinoso della seconda guerra punica. I romani vennero accerchiati ed annientati. I testi antichi parlano di 45.000 morti e 10.000 prigionieri. Una ecatombe. Quattro le “partite” giocate Roma vs Cartagine e quattro vittorie di Annibale. Dunque, in classifica, Cartaginesi punti 12, giallo – rossi zero. Si fa per dire. Vennero quindi gli ozi di Capua che fiaccarono i punici, dopo anni di combattimenti e migliaia di chilometri percorsi.

C’è una pagina di storia che così descrive il soggiorno dei cartaginesi a Capua: “Il sonno infatti e il vino e i banchetti, e le prostitute e i bagni e il non far nulla … infiacchirono i corpi e gli animi … questo sbaglio del Comandante eliminò le forze necessarie per vincere.” Roma, l’obiettivo principale della Campagna d’Italia di Annibale, il tesoro da saccheggiare per i suoi soldati, era rimasta intatta.

Delenda est Cartago, disse, in Senato, Catone il Censore, tornato da una infruttuosa missione diplomatica, condotta proprio in terra punica. Si decise di spostare il conflitto sull’altra sponda del Mediterraneo. Entrò in campo Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano (quello di “Ingrata patria, nec ossa quidem mea habes”). In Africa, sconfisse Annibale e i suoi elefanti da guerra, nella battaglia di Zama (202 a.C.). Cartago delenda est, continuava a sostenere il Censore.

Ultimo ad entrare sul palcoscenico dell’interminabile tempesta d’armi, ecco Scipione Emiliano, il prediletto di Cicerone. Condusse la terza guerra punica, vinse e distrusse Cartagine, nel 146 a.C. La feroce ostilità, tra le due maggiori potenze di quel momento, iniziata nel 264 a.C. e durata, a più riprese, pressappoco un secolo, era finita. La civiltà romana, diffusa, per costume, in punta di spada, aveva consolidato la sua presenza egemone e il prestigio politico dei governanti.

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