Intanto, dall’Ucraina arriva il messaggio: Siamo in economia di guerra
di Adriano Marinensi
Scrive il poeta (S. Martino – Carducci): “La nebbia agli irti colli piovigginando sale e, sotto il maestrale, urla e biancheggia il mare”. Il mare della Maremma placida che a Terni non c’è mai stato. La nebbia invece si. Almeno, sino a qualche decennio passato. Tanta nebbia, fitta, fitta, che non ti faceva vedere oltre il palmo di naso. Mica sui colli (i nostri non sono irti), invece in pianura.
Nebbia appesantita dagli effluvi delle ciminiere e degli impianti dell’Acciaieria. I fumi al silicio e le polveri rosse ad ogni colata, quintali di polveri cadenti al suolo. Facevano diventare smog l’atmosfera (smog dalla fusione tra i termini inglesi smoke – fumo e fog – nebbia, appunto). Grasso che cola se riuscivi a distinguere un gatto da un coniglio, nella corte del casolare. Durava giorni e giorni, a volte settimane, l’autunno grigio e la bruma intorpidita. E dire che, sopra la cappa, il cielo sovente appariva sereno (o poco nuvoloso).
Racconta Italo Calvino nel Marcovaldo: “La nebbia aveva invaso la città, una nebbia spessa, opaca che involgeva le cose e i rumori, spiaccicava le distanze in uno spazio senza dimensioni, mescolava le luci dentro il buio, trasformandole senza forma, né luogo”. Ecco, l’antica nebbia di Terni era proprio così. Per essere città tra le acque (Interamna), l’attraversa la Nera, vi si precipita il Velino innamorato. Il Cervino, all’epoca, si diramava in un intrico di canali di irrigazione (ormai quasi tutti intubati) ed a beneficio delle massaie rurali che, sopra il lavatoio pubblico di pietra, reso liscio dall’uso e dall’olio di gomito, lavavano i panni.
Pareva d’udire l’altro poeta (A Venezia – Arnaldo Fortunato): “E’ fosco l’aere, il cielo è muto”. Fosca era l’aria percossa dall’anzidetto impasto e il sentire diventava senza voci. Nella nebbia, i suoni scemavano come nelle notti ammantate di bianco. Sentivi il silenzio attorno, la natura tacita, quasi fosse al tempo del suo Creatore; l’impronta del vivere azzuffato, pressoché inesistente nella campagna che lambiva l’agglomerato urbano, per dirla con il linguaggio dei palazzinari. Il nebbione lasciava cadute d’umidità sulle cose e sulle case. Oltre ai reumatismi dolenti e diffusi all’ingrosso. Talvolta, la pioviggine petulante ti imponeva l’ombrello.
Questa era la nebbia di Terni che oggi non c’è più, almeno in quella pesante dimensione. Quando esistevano pure le mezze stagioni, la primavera (dolce) era primavera e l’agosto (torrido) era agosto. D’autunno, le precipitazioni lente e penetranti, a rinverdire le falde idriche (oggi le bombe d’acqua) e l’inverno con i suoi salutari rigori. Sotto la neve, pane! In casa mia regnava (senza fare miracoli) la stufa multifunzione, da cucina e da riscaldamento, il piano di ferro a cerchi concentrici, la vaschetta dell’acqua sempre calda, la legna da fuoco tratta dall’orto e dagli ulivi. L’ulivo benedetto che, si diceva, arde verde e secco. Il re con la cresta a suonare la sveglia e il maiale, sacrificato di coltello, a dicembre, generoso fornitore di alimenti, dal grugno alla coda.
Poi sono arrivati i cambiamenti climatici, lo scioglimento dei ghiacciai, il traffico con i motori a scoppio deflagrante. A Terni, abbiamo messo a tacere alcuni delle vecchie fonti inquinanti (acciaio e plastica, soprattutto) e credemmo di aver bonificato la città. Quando siamo andati ad indagare l’aria con i moderni strumenti d’indagine – le spione centraline di rilevamento – ci hanno certificato la presenza, nient’affatto innocente, delle polveri sottili, degli ossidi di azoto, dell’anidride carbonica in eccesso, dei metalli pesanti e di altre onuste negatività. Con rilevante impatto nel sistema cardiorespiratorio e alimentare, segnalato inutilmente dagli Enti sanitari locali.
Per la salute, nemici peggiori della nebbia fitta, fitta. E il tempo attuale, da lunga pezza a questa parte, è trascorso nella negligente immobilità di chi doveva darsi da fare per risolvere i problemi atmosferici e, al contrario, ha mostrato inettitudine amministrativa. Perciò, l’ambiente ternano non è granché migliorato. Al punto che sarebbe cosa onesta e di dovuto riguardo al forestiero (l’ho scritto e lo riscrivo), porre agli ingressi stradali – siccome sui cancelli delle ville, “attenti al cane”- dei cartelli ammonitori: Attenti all’aria. Non mozzica, ma nuoce alla salute.
Adesso cambio strada ma, poiché il tema seguente è di pericolosa attualità, Vi prego seguitemi lo stesso. L’attacco è questo. Erano i primi anni ’40 del secolo passato. E quando mia madre mi diceva di andare dal fornaio (nel vernacolo dei nonno miei, Chicchinu lu farnaru) a comprare il pane, dovevo ricordarmi di portare appresso la tessera alimentare, altrimenti sarei tornato con la sporta vuota. Uno degli effetti dell’economia di guerra, vigente al tempo, era infatti il razionamento: Un etto di pane (a testa) e un bollino. Così ogni giorno. Se non ti bastava il pane, ti avanzava la fame. Si viveva tirando la cinghia e la madia (la mattora) rimaneva spesso vuota.
Ci soccorrevano i prodotti dell’orto e del pollaio, frutta e verdura e, di tanto in tanto, qualche collo di pollastro attorcigliato a dovere. Per chi abitava, come me, a Galleto di Papigno, nella lontana periferia di Terni, un po’ di sussidio veniva dagli scarti di produzione del carburo di calcio. I detriti erano preziosi per l’illuminazione col gas acetilene, quando l’elettricità andava e veniva: più andava che veniva. E, in campagna, ci rimediavi, nel baratto, qualche chilo di farina. Insomma, vivevamo, con sacrificio, l’economia di guerra della quale ha parlato l’altro giorno – probabile per l’Italia – il Ministro della Transizione ecologica. A sentirglielo dire, mi si è aggrottata la fronte.
Le rinunce furono allora gravose e quelle di oggi potrebbero non essere leggere. Intanto, con gli stessi stipendi e le stesse pensioni, si dovrà far fronte ai prezzi in salita. Il carrello riempito a metà per la penuria di prodotti nei supermercati, l’automobile lasciata in garage per la scarsezza di carburante, più caldo (in casa, in ufficio, altrove) d’estate, più freddo l’inverno, causa la carenza di energia, bollette più salate, i beni primari (perché no) limitati al consumo. Persino i popoli africani, appena sulla via dello sviluppo, privati delle grandi riserve di grano bloccate in Ucraina, rischiano la carestia E’ l’economia di guerra, bellezza! Con tanti deferenti ossequi al (dis)onorevole Zar moderno del Cremlino che la guerra l’ha scatenata, in dispregio al giudizio dei principali Governi e Paesi del mondo. Grazie, Putin!