Cantava una canzone: Noi siam come le lucciole, brilliamo nelle tenebre
di AMAR
Recentemente ha fatto molto discutere la bizzarra ordinanza del Sindaco di Terni, intorno alla quale più d’uno ha ritenuto di forzare l’interpretazione autentica. Sanciva il divieto di indossare “abbigliamento indecoroso o indecente in relazione al luogo ovvero di mostrare nudità, ingenerando la convinzione di esercitare la prostituzione”. In parole povere, vietato ammiccare, in minigonna, mettendo in crisi “il decoro e la vivibilità urbana”. Fine nobile, però l’intervento un po’ sghembo perché fuorviante rispetto alla motivazione. Forse un semplice prurito improvviso all’insegna del perbenismo di segno esteriore.
La migrazione dell’alcova all’aperto è uno dei problemi che viene da remoto. In Italia, dalla fine degli anni ’50 del ‘900, quando una legge dello Stato (20 febbraio 1958, n.75) dette lo sfratto a tutte le “case di tolleranza” e al mercimonio praticato al loro interno: la cosiddetta Legge Merlin, dal nome della senatrice Lina che ne fu primaria proponente. Il titolo recitava: Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui. Dal punto di vista linguistico, il massimo della cacofonia. Le case chiuse – si chiamavano abitualmente così – vennero aperte e le loro inquiline finirono in molte sulla strada a praticare l’arte di prima.
La senatrice se la prese pesantemente anche con i “clienti dei bordelli” (parole sue), definendoli “depravati e corrotti”. E declamò: “Sviluppiamo la coscienza del cittadino, aprite ai giovani i campi sportivi, moltiplicate gli Ostelli della gioventù, spianate le vie dei monti e dei mari, anziché lasciare i giovani ad affollare i vicoli della suburra, in attesa del loro turno”. Espressioni quasi apocalittiche, contrastate dagli oppositori del provvedimento, ritenuto “diffusore di malattie veneree senza più alcun controllo”. Ed anche, l’esistenza del meretricio in quelle case, “la libera decisione delle lavoratrici, svolta in condizione di legalità e sicurezza”. Due posizioni alquanto peregrine: L’offesa della dignità delle donne da un lato contro il loro diritto di scelta e quindi di libertà. Il grande Benedetto Croce sostenne che, con l’abolizione coatta, “non sarebbe distrutto il male, ma il bene con il quale è contenuto, accerchiato e attenuato quel male”. Boh!
Alla fine di un confronto arcigno, in Parlamento e nell’opinione pubblica, la legge fu approvata a maggioranza. Gli annali parlamentari ci dicono che, alla mezzanotte del 19 settembre 1958, 560 “portoni” di siffatte dimore rimasero sigillati per sempre. I tempi successivi registrarono, sul tema, un tripudio di dibattiti, di letteratura giornalistica, di proposte di modifica e persino ricorsi alla Corte costituzionale. Comunque, se qualcuno avesse pensato di abolire, a norma di legge, il (super)mercato del piacere, il risultato tradì le attese.
Dicono si chiamasse Flora la più antica delle cortigiane dell’antica Roma. Enorme il numero di “quelle” durante il periodo imperiale. E la concorrenza maschile (il vizio greco) non fu di poco conto. Dalla romanità in avanti, quante facevano la professione sono state apostrofate con nomi diversi. Per esempio lupa, in quanto associata al culto della dea Lupa; in latino, meretrices, dal verbo merere, cioè guadagnare; fornicatrices, che esercitavano sotto i fornici del ponti; se prestavano l’opera soltanto di domenica, domenicales. Il più elegante appellativo, nei tempi vicini a noi, lucciole, cantate da Achille Togliani nella canzone Lucciole vagabonde: Noi siam come le lucciole, brilliamo nelle tenebre, schiave di un mondo brutal, noi siamo i fiori del mal …
Le case chiuse di venti secoli fa, erano dette lupanari (da lupa, appunto). Una delle leggende legate a Romolo e Remo sostenne che i gemelli, messi in una cesta affidata al Tevere, li allattò proprio una lupa, che non era animale, ma donna. Pure Acca Larentia, moglie del pastore Faustolo che li allevò, pare fosse una lupa. Insomma, nella vecchia Roma ce n’erano tante e per ogni pretesa, nei luoghi più strampalati: addirittura davanti una stamberga, di fronte ai cimiteri, nelle sordide taverne. L’esempio d’alto bordo invece, pare fosse Messalina, meretrice e Augusta in quanto terza moglie dell’Imperatore Claudio.
Nel divenire, ci furono le cortigiane oneste, di buona cultura e raffinata educazione, talvolta animatrici di salotti, con facoltà di scelta della clientela e di aspirare a relazioni importanti per conquistare agiatezza e posizioni di prestigio. Senza dimenticare, pur se fenomeno non ricorrente, le cortigiane papali. Citazione esemplare per Vannozza Caetani che divise il talamo con Alessandro VI e gli dette alcuni figlioli, due dei quali, Cesare e Lucrezia, alquanto birbaccioni. Di Vannozza, ascesa al rango di ospite illustre della Santa sede, esiste un pregevole ritratto di gentildonna nella Galleria Borghese, a Roma. Anche il Pinturicchio l’ha immortalata in una sua pittura.
Innocenzo VIII celebrò a Roma le nozze del figlio Franceschetto con la figlia Maddalena di Lorenzo il Magnifico. Non furono indenni da giudizi di rigore morale altri Pontefici come Pio II (gli furono attribuiti alcuni epigoni naturali), Giovanni XII (pare l’abbia colpito a morte il marito della sua amica Stefanetta), Clemente VI (Petrarca lo definì Dioniso Ecclesiastico), Innocenzo VIII (privilegiò i godimenti della vita mondana), Giulio II (morì a causa di una malattia venerea) e Giulio III (nominò Cardinale un poveraccio e se lo fece amante).
Verso il 1500, Papa Clemente VII ordinò un censimento e il risultato fu una percentuale di cortigiane pari a 17 ogni 1000 donne romane. Non mancavano le risse per causa loro e gli arresti. Il Tribunale Curiale rilasciava le licenze e riscuoteva le tasse. Asserirono che la costruzione di Ponte Sisto e la manutenzione di Ponte Rotto, a Roma, fossero finanziate con i proventi delle meretrix. Fu istituito il Conservatorio di S. Caterina della Rota per accogliere i figli e le figlie del peccato.
Insomma, non si può dire che il “mestiere”, nei secoli, fosse oggetto di interventi diretti ad imporre abbigliamenti ed atteggiamenti castigati, come a Terni. Ci sono stati momenti di fulgore, ben oltre la castigazione alla quale tendono certi provvedimenti “senza arte, né parte”. Il mondo delle lucciole, per usare l’epiteto più elegante – con tutto l’ andazzo naturale che si porta appresso e ad onta delle leggi statali e delle (bislacche) ordinanze sindacali – va avanti per la sua strada. Gonne lunghe o corte che siano.